Centinaia di bombe, sganciate a ripetizione dagli scafi delle astronavi, scendevano in picchiata fino a mezz’aria, dove i congegni frenanti le facevano arrestare: i loro involucri si squarciavano scoppiando e vomitando incandescenti colate di lava.
Lontana da quel cataclisma, sull’alto delle colline, Nereide restava chiusa nel mezzo blindato. Improvvisamente fredda e senza paura, guardava attraverso il tele binocolo: voleva rendersi conto delle fasi e della portata dell’attacco che, non aveva dubbi, era opera dei Quun.
Il fragore rintronava per la Vallata sino ai fianchi delle Montagne Trasparenti e ne rimbalzava in echi, dando l’impressione che altre bombe si squarciassero da quella parte. Ma i rovesci di lava che strisciavano dal cielo alla terra come lunghissime lingue vischiose erano concentrati sul comprensorio di Mira-City: lo scopo evidente dei Quun era annientare la colonia terrestre […].
Ben presto, il rosso-fuoco della lava venne offuscato da un fumo catramoso in lenta ascesa, segna che Mira-City stava bruciando. La colonna s’ingrandì rapidamente e si gonfiò fino a sfioccarsi in sfilacciature nere che si muovevano sulla Vallata come velature luttuose […].
Poi, le colate di lava cessarono. Il bombardamento era finito. Ma il frastuono aumentava: le astronavi quun stavano calando orizzontalmente su Héteros: le collane mostruose guizzavano come rettili e davano bordate da testa e da coda. Altre venivano a posarsi sul terreno erboso della Vallata, a una distanza non tanto grande che Nereide non riuscisse a vederle nei loro movimenti. Rimbalzarono elasticamente, si arrestarono, s’immobilizzarono a serpentina.

Gilda Musa (1981), Fondazione «ID», Milano, Editrice Nord, 104-105.

El cielo era azul. De un azul abismal, como si la luz en vez de reflejarse en él, estuviese disuelta en él. La luz caía en espejazo ardiente sobre la arboleda, sobre los charcos, sobre los techos, sobre la bahía. El agua del río era cobre derretido. Los árboles ostentaban el verde sombrío de las soledades alimentadas de largas putrefacciones, empolladas por lúbricas lluvias.
El paisaje urbano, al llegar los primeros soldados enemigos, era el de una resignada desolación. Las casas, en dos años, habían envejecido décadas; la caries mordió sus muros descubriendo
el tosco ladrillo o el indefenso adobe; el moho invadió, oscuro como la vergüenza del tiempo, las fachadas; y de nuevo yuyos, algún malvón superviviente, árboles en los patios absorbían a su placer los jugos violentos de la tierra.
(En las calles, los badenes se ahondan cada vez más al paso de los raudales durante noches y días solitarios; los yuyales crecen optimistas; de trecho en trecho, una santalucía abre sus ojos cándidos junto a un umbral desierto. De un espeso yuyal crecido en mitad de la calle surge de pronto tal cual animal: bestia salvada del desastre; algún burro rengo trasijado, una alocada gallina, un perro lastimoso, un caballo lleno de carachas, arrastrando un casco que cuelga de un tendón; un gato, no tan flaco como podría esperarse. Porque hay ratones. Muchos ratones).
Grupos de soldados transitan demorándose adrede, por las calles, sumergiéndose a veces con risadas divertidas u oscena en los crecidos yuyales. Hallan de su agrado aquel lujo del abandono. En mitad de la calle, arbustos más altos que ellos. Un perro flaco aúlla y huye, sangrante el anca: un soldado lo ha pinchado con su cuchillo. Arrecian las risas: la soldadesca resbala calle abajo, se pierde.

Il cielo era azzurro. D’un azzurro abissale, come se la luce invece di riflettervisi, vi si fosse disciolta dentro. La luce cadeva in un infrangersi di specchio ardente sui terreni alberati, sulle pozze, sui tetti, sulla baia. L’acqua del fiume era rame fuso. Gli alberi ostentavano il verde ombroso delle loro solitudini alimentate di lunghe putrefazioni, covate da lubrici diluvi.
Il paesaggio urbano, all’arrivo dei primi soldati nemici, era d’una rassegnata desolazione. Le case, in due anni, erano invecchiate di decenni: il marciume aveva corroso i muri scoprendo il grezzo mattone cotto o l’indifeso adobe; la muffa, oscura come la vergogna del tempo, aveva invaso le facciate; e ancora erbacce, qualche geranio sopravvissuto, gli alberi nei giardini assorbivano a loro piacimento i succhi violenti della terra.
(Nelle strade, le cunette si fanno sempre più profonde con lo scorrere delle acque torrenziali durante notti e giorni desolati; i campi di malerbe crescono ottimisti; ogni tanto, una santalucía apre gli occhi candidi accanto a una soglia deserta. Da un fitto prato d’erbacce cresciuto in mezzo alla strada spunta all’improvviso qualche animale: una bestia salvatasi dal disastro; un asino zoppo scarnito, una gallina scalmanata, un cane miserevole, un cavallo ricoperto di scabbia che si trascina uno zoccolo pendente da un tendine; un gatto, non così magro come ci si potrebbe aspettare. Perché ci sono topi. Molti topi.)
Transitano drappelli di soldati che indugiano di proposito per le strade, immergendosi a volte con risate divertite o oscene nei rigogliosi campi d’erbacce. Trovano di loro gradimento quell’opulenza dell’abbandono. In mezzo alla strada, arbusti più alti di loro. Un cane smunto guaisce e fugge, l’anca sanguinante: un soldato l’ha infilzato col coltello. S’intensificano le risa: la soldatesca scivola giù per la strada, si perde.

Josefina Plá, Jesus Meninho (2014 [1989]), in Ead. Cuentos Completos, II, Asuncion, Seavi Libro, pp. 153-154. Traduzione italiana inedita a cura di Francesca di Meglio.

The previous Sunday had been calm, a little humid. Leaves on the big chesnuts trees along my street were getting a brown rim that looked like rust, a rust hinting at early winter frosts. I invited my friend Sanka to lunch and laughed when she entered my house carrying a little bag with documents, warm clothes, biscuits and a bottle of water, just as the Territorial Defence people had been instructing us to do, in case we had to hide in shelters or cellars during an air-raid. I prepared pasta al bianco, opened a bottle of red Cabernet and just as we were about to eat, we heard the strange, unnerving sound. I remember looking at my fork half way down to the plate, holding it there for a long moment as if something, some unknown force, was stopping me from putting it down. Only then did we hear the air-raid alarm – a long howling sound that until that moment we only knew from TV reports. I knew what we were supposed to do – run to the nearest  shelter and hide. Instead, both of us sat at the kitchen table listening to the roar of the MIGs flying low overhead. It was not fear that i felt, or panic. Nothing. There was no trace of emotion in me. Instead, i felt an empty space opening up like a hole in my chest, and with each passing moment my legs grew heavier and heavier, as if they were turning into stone. In my mind, I saw one image, a picture that i’d seen in one of the countless war reports on TV. It was a house without a roof. A camera first showed it from the outside – a newly-painted low building – then entered a bedroom. There were two beds complete with blankets, pillows, sheets and so on, even the curtains were still on the windows with the broken glass. But the roof was missing, as if someone had forgotten to put it there or had simply taken it off like a child’s toy. Only a few remnants of bricks and a fine dust all over the room showed that the roof had in fact once existed – perhaps only a couple of hours before that picture was taken. The picture of this bedroom with two neat beds, helpless and exposed, looked like a picture from my own life: the perversity of war stripping away from us all intimacy. The war was in my mind, in my legs, on the table, in the plate of pasta getting cold.

La domenica precedente era stata calma, un pò umida. Le foglie dei grandi castagni lungo la mia via si stavano colorando di un marrone che sembrava ruggine, la ruggine che parlava di geli invernali precoci. Avevo invitato a colazione la mia amica Sanka. Quando lei è entrata in casa mia, portandosi una valigetta di documenti, vestiti pesanti, biscotti e una bottiglia d’acqua, secondo le istruzioni della Difesa Territoriale Civile, nel caso dovessimo nasconderci nei rifugi o nelle cantine durante un’incursione aerea, siamo scoppiate a ridere. Ho preparato della pasta in bianco,ho aperto una bottiglia di Cabernet rosso e, proprio mentre stavamo per metterci a mangiare, abbiamo sentito quel rumore strano, spaventoso. Ricordo di aver fissato la forchetta che era rimasta a mezza’aria e di averla tenuta così per un lungo momento, come se una forza misteriosa mi impedisse di metterla giù. Solo allora abbiamo sentito l’allarme aereo, un lungo suono lacerante che sino a quel momento conoscevamo soltanto dalla TV. Sapevo che cosa ci si aspettava da noi: correre nel più vicino rifugio e nasconderci. Invece tutte e due siamo rimaste sedute al tavolo della cucina ascoltando il rombo del dei MIG che volavano bassi sopra le nostre teste. Non è paura quella che ho sentito, nè panico. Niente. In me non c’era traccia di emozione. Ho sentito, invece, un vuoto che si apriva come un buco nello stomaco, e a ogni momento che passava le mie gambe si facevano sempre più pesanti, pesanti come sassi. Nella mia testa c’era un’immagine, una ripresa che avevo visto in uno degli innumerevoli servizi televisivi sulla guerra. Era una casa senza tetto. La macchina da presa la riprendeva prima dall’esterno, un edificio basso appena imbiancato, poi entrava in una stanza da letto. C’erano due letti con le coperte, i cuscini, le lenzuola e tutto quanto, persino le tende erano ancora appese alle finestre con i vetri rotti. Ma il tetto mancava, come se qualcuno si fosse dimenticato di mettercelo. O l’avesse sempicemente tolto, come si fa con un giocattolo. Solo pochi pezzi di mattone e la polvere sottile che ricopriva la stanza testimoniavano che, dopo tutto, il tetto c‘era, forse solo un paio d’ore prima che fosse stata ripresa l’immagine. La stanza con i due letti ben fatti, indifesi ed esposti, mi pareva il quadro della mia vita: la perversità della guerra che ci strappa a forza dall’intimità. La guerra era nella mia testa, nelle mie gambe, sulla tavola, nel piatto di pasta che diventava fredda.

Slavenka Drakulić (1993), Balkan Express. Fragments from the Other Side of War, New York, W.W. Norton & Co, 35. Trad. it. di Isabella Vay (1996), Balkan Express, revisione e cura di Nicole Janigro, Milano, EST, 48.

Chaude, pensaient les Parisiens. L’air du printemps. C’était la nuit en guerre, l’alerte. Mais la nuit s’efface, la guerre est loin. Ceux qui ne dormaient pas, les malades au fond de leur lit, les mères dont les fils étaient au front, les femmes amoureuses aux yeux fanés par les larmes entendaient le premier souffle de la sirène. Ce n’était encore qu’une aspiration profonde semblable au soupir qui sort d’une poitrine oppressée. Quelques instants s’écouleraient avant que le ciel tout entier s’emplît de clameurs. Elles arrivaient de loin, du fond de l’horizon, sans hâte, aurait-on dit ! Les dormeurs rêvaient de la mer qui pousse devant elle ses vagues et ses galets, de la tempête qui secoue la forêt en mars, d’un troupeau de bœufs qui court lourdement en ébranlant le sol de ses sabots, jusqu’à ce qu’enfin le sommeil cédât et que l’homme murmurât, en ouvrant à peine les yeux.
- C’est l’alerte ?
Déjà, plus nerveuses, plus vives, les femmes étaient debout. Certaines, après avoir fermé les fenêtres et les volets, se recouchaient. La veille, le lundi 3 juin, pour la première fois depuis le commencement de cette guerre, des bombes étaient tombées à Paris ; mais le peuple demeurait calme. Cependant les nouvelles étaient mauvaises. On n’y croyait pas. On n’eût pas cru davantage à l’annonce d’une victoire. « On n’y comprend rien », disaient les gens. À la lumière d’une lampe de poche on habillait les enfants. Les mères soulevaient à pleins bras les petits corps lourds et tièdes « Viens, n’aie pas peur, ne pleure pas. » C’est l’alerte. Toutes les lampes s’éteignaient, mais sous ce ciel de juin doré et transparent, chaque maison, chaque rue était visible. Quant à la Seine, elle semblait concentrer en elle toutes les lueurs éparses et les réfléchir au centuple comme un miroir à facettes. Les fenêtres insuffisamment camouflées, les toits qui miroitaient dans l’ombre légère, les ferrures des portes dont chaque saillie brillait faiblement, quelques feux rouges tenaient plus longuement que les autres, on ne savait pourquoi, la Seine les attirait, les captait et les faisait jouer dans ses flots. D’en haut, on devait la voir couler blanche comme une rivière de lait. Elle guidait les avions ennemis, pensaient certains. D’autres affirmaient que c’était impossible. En réalité, on ne savait rien. « Je reste dans mon lit », murmuraient des voix ensommeillées, « j’ai pas peur. - Tout de même, il suffit d’une fois », répondaient des gens sages.

Sarà dura, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra, l'allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che non dormivano, i malati nei loro letti, le madri con un figlio al fronte, le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto, sentivano il primo soffio della sirena, ancora solo un ansito profondo simile al sospiro che esce da un petto oppresso. In pochi istanti il cielo tutto si sarebbe riempito di clamori. Che venivano da lontano, dall'estrema linea dell'orizzonte - senza fretta si sarebbe detto. Quelli che dormivano sognavano il mare che spinge davanti a sé i ciottoli e le onde, la tempesta di marzo che scuote la foresta, una mandria di buoi che galoppano pesanti facendo tremare il suolo con gli zoccoli; ma il sogno finiva e socchiudendo appena gli occhi gli uomini mormoravano: "É l'allarme?"
Le donne, più ansiose, più pronte, erano già in piedi. Alcune, dopo aver chiuso imposte e finestre, tornavano a letto. Il giorno precedente, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall'inizio della guerra, Parigi era stata bombardata; ma la popolazione non si era fatta prendere dal panico, benché le notizie fossero tutt'altro che buone. Nessuno riusciva a crederci. Così come nessuno avrebbe creduto all'annuncio di una vittoria. "Chi ci capisce qualcosa è bravo" diceva la gente. Le madri vestivano i bambini facendo luce con una pila. Poi alzavano di peso i piccoli corpi inerti e tiepidi: "Vieni, non aver paura, non piangere" E l'allarme. Si spegnevano tutte le luci, ma sotto quel cielo di giugno dorato e trasparente ogni casa, ogni strada era visibile. Mentre la Senna pareva concentrare in sé ogni sparso chiarore per poi rifletterlo, centuplicato, come uno specchio sfaccettato: le finestre non oscurate a sufficienza, i tetti che luccicavano nell'ombra leggera, le guarnizioni di ferro delle porte su cui ogni sporgenza brillava debolmente, qualche semaforo rosso che, chissà perché, durava più a lungo degli altri - la Senna li attirava, li catturava e li faceva danzare nei suoi flutti. Dall'alto, doveva sembrare un fiume di latte. Guida gli aerei nemici, pensavano alcuni. Altri affermavano che era impossibile, In realtà nessuno sapeva niente. "Me ne resto a letto," mormoravano voci assonnate "non ho paura" "Basta una volta e siamo fritti" rispondevano voci più sagge.

Irène Némirovski (2004 [1941-1942]), Suite française, Paris, Éditions Denoël, 27-28. Trad. it. di Laura Frausin Guarino (2005), Suite Francese, Milano, Adelphi, 13-14.

In the trench, the earth felt like soaked bread. Ugwu lay still. A spider clambered up his arm but he did not slap it away. The darkness was black, complete, and Ugwu imagined the’spider’s hairy legs, its surprise to find not cold underground soil but warm human flesh. The moon floated out once in a while, and the thick trees ahead became dimly outlined. The vandals were somewhere there. Ugwu hoped for a little more light; the moon had been more generous earlier when he buried his ogbunigwe about thirty yards ahead. Now the darkness brooded. The cable felt cold in his hand. Next to him, a soldier was mumbling prayers in the softest voice, so soft that Ugwu felt he was whispering in his ear. […] He shook the spider off and stood up when the vandals started shooting.

In trincea la terra sembrava pane bagnato. Ugwu era immobile. Un ragno gli risaliva un braccio ma non lo scacciò. Il buio era nero, assoluto, e Ugwu immaginò le zampette pelose del ragno, e la sua sorpresa nel trovarsi su tiepida carne umana, anziché sul freddo terriccio del sottosuolo. La luna usciva di quando in quando, disegnando appena il fritto contorno degli alberi di fronte. I barbari erano lì, da qualche parte. Ugwu avrebbe gradito un po’ più di luce; prima, quando aveva sepolto il suo ogbunigve una trentina di metri più avanti, la lune aera stata più generosa. Adesso il buio incombeva. Il cavo era freddo nella sua mano. Accanto a lui, un soldato biascicava preghiere a voce bassissima, e Ugwu ebbe la sensazione che gli sussurrasse qualcosa all’orecchio […]. Scosse via il ragno e si alzò quando i barbari cominciarono a sparare.

Chimamanda Ngozi Adichie, (2007 [2006]), Half of A Yellow Sun, NY, Anchor Books, 453-454. Trad. it. di Susanna Basso (2008), Metà di un sole giallo, Torino, Einaudi, 350.