Quando fu nella strada dopo che Don Predu lo ebbe accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò attorno e sospirò.
Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l’uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l’erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.
Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei raggi verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l’antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all’avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.

Grazia Deledda (1987 [1913]), Canne al vento, Milano, Mondadori, 180-181.

Qualche volta, sull’ora del tramonto, le donne andavano a fare una passeggiata, a capo scoperto, col grembiule davanti, e, secondo l’uso del paese, mettendo in tasca un piccolo velo, da gettare sui capelli quando entravano nella loro chiesuola favorita.
Era questa una specie di oratorio nascosto fra i castagni del gran viale del Santuario, nel quale si entrava per una porticina verde, bassa, semplice come la porta di una casetta rustica. E rustica era la chiesa, quadrata, col soffitto a travicelli, circondata per due lati da altarini affondati nelle loro nicchie. Di fronte alla porta un arco si apriva in una seconda chiesa, dove c’era l’altare maggiore cinto da una balaustra di legno dipinta in color turchino, colla cornice dell’altare barocca, tutta a nastri svolazzanti e a ghirlande di fiori, che davano alla chiesuola un aspetto gaio d’alcova, accresciuto dalle tendine di filugello giallo, che chiudevano le entrate delle cappelle con una discrezione piena di mistero.

Neera (1923), La Regaldina, Milano, A. Barion Editore, 62-63.

La route, jusque-là charmante, devint merveilleuse. Les azalées et les rhododendrons portaient encore leur parure printanière. Un torrent chatoyant semblait avoir submergé la vallée, lançant ses ondes pourpres, mauves, jaunes ou d’un blanc éclatant à l’assaut des pentes voisines, et mes porteurs, dont les têtes seules émergeaient des buissons, m’apparaissaient, de loin, comme des nageurs dans une mer de fleurs […].
En cours de route, nous campâmes près d’un joli lac, dans la vallée désolée de Lonak, non loin du plus haut col du monde ; le col de Jongson (7 300 mètres d’altitude) où se rencontrent les frontières du Tibet, du Népaul et du Sikkim. Nous demeurâmes ensuite, quelques jours, au bord des moraines gigantesques d’où émergent les pics couverts de glaciers du Kintchindjinga.

La strada fin’allora bella, divenne meravigliosa. I cespugli di azalee e di rododendri erano ancora nei loro abiti primaverili. Un luccicante torrente di fiori sembrava sommergesse la valle con le sue onde, a volta a volta rosse, verdognole, gialle, di un bianco purissimo, all’assalto dei pendii vicini; mentre i miei portatori, dei quali si vedevano emergere solo le teste dai cespugli, di lontano sembravano nuotassero in un mare di fiori […].
Lungo la strada ci accampammo nelle vicinanze d’un grazioso lago nella desolata valle di Lonak, non lontano dal più alto valico del mondo: il passo Jongson (7300 metri d’altitudine) dove si incontrano le frontiere del Tibet, del Nepal e del Sikkim. Ci fermammo poi qualche giorno accanto alle gigantesche morene dalle quali emerge il picco del Kintchindjinga coperto di ghiacciai.

Alexandra David-Néel (2011 [1929]), Mystiques et Magiciens du Tibet, Paris, Plon, 70 e 95. Trad. it. di Emilia Gut (2006), Mistici e maghi del tibet, Roma, Voland, 45 e 60.

Io sono nata con la passione delle lontananze.
Non posso vedere davanti a me una strada – bianca, ignora, che conduce chi sa dove! – senza sentire la necessità di percorrerla, lo struggimento di seguirla fin dove va.
Svolta essa laggiù, lontano? … Bisogna ch’io vada fino alla voltata per vedere, al di là, che cosa c’è. S’inoltra in un bosco? Sento la necessità di andare fin dove il bosco termina. Sale per la collina? Andiamo a vedere che vista c’è di lassù! Ridiscende e serpeggia via nella vallata? Corriamo giù a scoprire dove finisce. Finisce in riva a un mare? Oh! Allora prendiamo un battello e andiamo a vedere che cose c’è sull’altra riva!
Già, fin da bambina, io dicevo sempre:
« Mi piacciono molto gli andari via ».
Ed anche oggi, alla gioia grande dell’arrivo in un luogo nuovo, prediligo la gioia maggiore di ripartirne.
Ah! Dolce, in un mattino di sole, la partenza improvvisa, senza ragione, senza programma, senza meta prestabilita! …
Non appena metto il piede fuor della soglia, qualche cosa nel mio cuore prorompe in canti, come una fonte che si dissuggella, come un’allodola scagliata verso i cieli. E tutto mi piace: il sole e la pioggia, il vento e l’azzurro, le salite e le discese, la solitudine e la gente che incontro per la via.
Che cosa sarà mai il segreto di questo incantamento? Donde nasce tanta letizia nei miei vagabondaggi?

Annie Vivanti (1932), Zingaresca, Milano, Mondadori, 11-12.

Dissepolte foglie
nei viali c’inseguirono, stridendo.
Rami
dai cancelli protesero
le loro ombre oscillanti
sull’asfalto.

Muti a sbocchi di strade
immobili fanali guardano
luci
a scroscio fuggenti,
tra rotaia e ruota
una scintilla verde che scocca.

Le case vogliono
pause di sonno
a occhi chiusi nel tremante silenzio:

ma passi
ancora
nascono agli svolti,

l’alba come una foglia
dissepolta c’insegue.

4 maggio 1935

Antonia Pozzi (2010), La notte inquieta, in Ead., Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Roma, Luca Sosselli Editore, 328.

The Road was lit with Moon and star—
The Trees were bright and still—
Descried I—by the distant Light
A Traveller on a Hill—
To magic Perpendiculars
Ascending, though Terrene—
Unknown his shimmering ultimate—
But he indorsed the sheen—

La strada era accesa di luna e di una stella –
gli alberi erano vividi e fermi –
Io scorsi – nel – chiaro lontano
un viandante su un colle –
salire per verticali magiche
sebbene della terra –
Ignota la sua cima di luce –
ma lui garantiva lo splendore –

Emily Dickinson, 1450, c. 1878, 1945, in Ead., The Complete Poems, edited by Thomas H. Johnson, Boston-Toronto, Little Brown and Company, 1976, 616. Trad. it. di Rina Sara Virgillito (2002), in Emily Dickinson, Poesie, Milano, Garzanti, 113.

Mambo’s studio was situated in Patchen Place, a street without issue. An iron railing half blocked its entrance, like an entrance to a prison. The houses all being identical added to this impression of an institution where all variations in the human personality would be treated like eccentricities and symptoms of disintegration.
Sabina hated this street. She always considered it a trap. She was certain that the lie detector had seen her enter and would wait at the gate to see her come out. How simple it would be for him to find out who lived there, whom she visited, which house she came out of in the morning.
She imagined him searching every house, reading all the names on the letter boxes: E. E. Cummings, Djuna Barnes, Mambo of Mambo’s Nightclub, known to everyone.
At dawn, the lie detector himself would see her come out of the house, holding her cape tightly around her against the morning sharpness, her hair not smoothly combed, and her eyes not fully opened.
Any other street but this one.

L’appartamento di Mambo era situato a Patchen Place, una strada senza uscita. Una cancellata di ferro ne bloccava l’entrata a metà, come l’ingresso di una prigione. Le case tutte identiche contribuivano a conferire al posto l’aspetto di un’istituzione in cui ogni variazione della personalità umana sarebbe stata considerata un’eccentricità e anche un sintomo di devianza.
Sabina odiava quella strada. L’aveva sempre considerata na trappola. Era sicura che lo scopribugie l’avesse vista entrare e avrebbe aspettato al cancello per vederla uscire. Come sarebbe stato semplice per lui scoprire chi viveva lì, chi andava a trovare, e da quale casa usciva il mattino.
Sabina se lo immaginò a scrutare attentamente ogni casa, a leggere tutti i nomi sulle cassette delle lettere: E. E. Cummings, Djuna Barnes, Mambo del Night Club Mambo’s conosciuto da tutti.
All’alba lo scopri bugie in persona l’avrebbe vista uscire dalla casa, stringendosi addosso il mantello contro il rigore del mattino, coi capelli pettinati alla meglio, e gli occhi non del tutto aperti.
Qualsiasi altra strada ma non questa.

Anaïs Nin (1979 [1954]), A Spy in The House of Love, in Ead., Cities of The Interior, Novels by Anais Nin, Vol. 2, New York, Quartet Books 1979, 403. Trad. it. di Delfina Vezzoli (1991), Una Spia nella Casa dell’Amore, Milano, Sonzogno, 69.

Algunas casas se le antojaron de lejos hospitalarias, pero de cerca resultaron imponentes de lujo y de novedad, y le metían miedo. Se sentía horriblemente cansada y tenía sed. Por fin se animó a acercarse a una casa de apariencia más acogedora y modesta, de copiosa enramada, bajo la cual vio sestear a unas señoritas muy acicaladas vestidas con batas de colores y abanicándose; junto a ellas estaban sentados unos caballeros que parecían de excelente humor y muy familiares. Severina llamó tímidamente; alguien dijo adelante; pero cuando empezó a acercarse por el sendero entre amarilis, los hombres comenzaron a reír, las chicas les hicieron coro, y Severina se asustó y dando media vuelta salió a la calle, seguida por las risas del cotarro. Siguió caminando, cada vez más cansada y sedienta. Por fin, encontró un puesto de aloja. Bebió un vaso y se sintió más confortada. Ya cayendo la tarde se encontró junto a la iglesia de San Roque. Le parecieron tan acogedores aquellos corredores profundos, que la protegerían de la lluvia que ya se anunciaba con gotas aisladas. Subió como pudo los escalones y se sentó en el suelo contra la pared, derrengada. De puro vyra no había comprado nada para comer, ni siquiera una chipa, y ahora tendría que pasar la noche en ayunas. Bueno, nadie se muere por ayunar un día. Extendió el rebozo sobre los ladrillos y se acostó encima. Era incómodo y un poco molesto para ella, tan limpia; pero en verano nada importa.

Severina allora cominciò a camminare stancamente, senza meta, cercando dove potersi fermare un istante. Alcune case da lontano le sembravano ospitali, ma da vicino risultavano imponenti di lusso e novità, e le incutevano timore. Si sentiva terribilmente stanca e aveva sete. Finalmente si azzardò ad avvicinarsi a una casa dall’aspetto più accogliente e modesto, con una folta pergola sotto la quale vide che riposavano e si sventagliavano delle signorine molto agghindate, vestite con vestagliette colorate; accanto a loro erano seduti dei gentiluomini che sembravano d’eccellente umore e molto affabili. Severina chiamò timidamente; qualcuno disse ‘avanti’. Ma quando cominciò ad avvicinarsi lungo il sentiero tra gli amarilli, gli uomini iniziarono a ridere, le ragazze fecero loro coro, e Severina, spaventata, si voltò e uscì in strada, seguita dalle risa della combriccola. Continuò a camminare, sempre più stanca e assetata. Finalmente trovò un venditore ambulante di aloja. Ne bevve un bicchiere e si sentì più rinfrancata. Al calar della sera si ritrovò nei pressi della chiesa di San Rocco. Quei corridoi profondi, che l’avrebbero protetta dalla pioggia che già s’annunciava con gocce isolate, le parvero così accoglienti. Salì come poté i gradini e si sedette a terra contro la parete, spossata. Che vyra era stata a non comprar nulla da mangiare, nemmeno una chipa, e adesso avrebbe dovuto trascorrere la notte a digiuno. Certo, nessuno muore per aver digiunato un giorno. Stese il rebozo sui mattoni e vi si coricò sopra. Era scomodo e un po’ sgradevole per lei, così pulita; ma d’estate non è grave.

Josefina Plá (1996 [1964]), La pierna de Severina (1964), in Ead., Cuentos completos, Asunción, El Lector 1996, 171. Trad. it. di Francesca di Meglio (2013), La gamba di Severina, in Josefina Plá, Racconti, Firenze, Le Lettere, 64-65.

Beyond the clearing – the settlement of huts, livestock kraals, and the stumped and burned-off patches which were the lands – the buttock-fold in the trees indicated the river and that was the end of measured distance. Like clouds, the savannah bush formed and re-formed under the changes of light, moved or gave the impression of being moved past by the travelling eye; silent and ashy green as mould spread and always spreading, rolling out under the sky before her. There were hundreds of tracks used since ancient migrations (never ended; her family’s was the latest), not seen. There were people, wavering circles of habitation marked by euphorbia and brush hedges, like this one, fungoid fairy rinks on grass – not seen. There were cattle cracking through the undergrowth, and the stillness of wild animals – all not to be seen. Space; so confining in its immensity her children did not know it was there.

Al di là della radura – dell’agglomerato di capanne, dei recinti per il bestiame, delle zolle sgomberate dai ceppi e riarse dal sole che costituivano le terre – un solco tra gli alberi indicava il fiume, ed era lì che terminava la distanza misurata. Simile alle nuvole, la vegetazione della savana assumeva sempre nuove forme sotto i cambiamenti di luce, si spostava o dava l’impressione di venire spostata dall’occhio che la percorreva; silente e di un verde cenerognolo, era come una macchia di muffa in continua espansione che si srotolasse sotto il cielo, davanti a lei. C’erano centinaia di piste usate sin dalle antiche migrazioni (mai cessate; l’ultima in ordine di tempo era quella della sua famiglia), non visibili. C’erano individui, cerchi non ben definibili di comunità delimitate da siepi di euforbia e di cespugli, simili a quello, anelli che crescevano da un momento all’altro sull’erba, come per magia: non visibili. C’era bestiame che si aggirava attraverso il sottobosco, e c’era l’immobilità degli animali feroci: il tutto destinato a non essere visto. Spazio; così delimitante, nella sua immensità, che i suoi bambini non sapevano che ci fosse.

Nadine Gordimer (2005 [1981], July's People, London, Bloomsbury, 31-32; trad. it di Hilia Brinis (2008), Luglio, Milano, Feltrinelli, 33-34.

Voglio fare un ultimo giro a piedi per la città, in attesa che venga l’ora di passare dall’Università. Non ho da andare da nessuna parte, quindi posso concedermi una passeggiata lungo la Promenade. È deserta e bellissima; gli uccelli cantano e gli alberi del viale sono in fiore.
L’idea sarebbe di camminare su dritto fino allo stabilimento termale poi tornare sui miei passi, ignorando la bruttezza e il grigiore che stanno alle spalle della doppia fila di edifici asburgici. Ma dopo un centinaio di metri sono di nuovo, come sempre, le due sconclusionate mezze città sulla destra e sulla sinistra del viale che mi attraggono in modo irresistibile. Mi addentro da un lato, torno sul viale, mi tuffo dall’altra parte. Ritrovo l’odore del cavolo, di sapone da bucato […].
Appena ritorno sulla strada la bruttezza riprende il sopravvento. Nessun edificio, compreso quello che ospita la scuola materna, è abbastanza bello da mantenere la sua bellezza anche immerso nella sciatteria del tessuto connettivo che lo unisce agli altri; tuttavia alcune vecchie case, qua e là, non mi sembrano più così sinistre come le avevo giudicate.

Francesca Duranti (1988), Effetti personali, Rizzoli, Milano, 155-156.

Il cane avanzava per il viale, infastidito dal freno che gli imponevo, dalla morsa del collare. Passai davanti al moncone di sommergibile verde che piaceva tanto a Gianni, mi infilai nel tunnel pieno di scritte oscene, salii verso il boschetto di pini. A quell’ora le madri – folti gruppi di madri chiacchierine – sostavano nell’ombra degli alberi, chiuse nel cerchio delle carrozzine come coloni durante una sosta in un film western, o sorvegliavano bambini di pochi anni che vociavano più in là giocando a palla. La gran parte non amava i cani in libertà. Proiettavano i loro spaventi sulle bestie, temevano che azzannassero i bambini o imbrattassero gli spazi dei giochi.
Il lupo soffriva, voleva correre e giocare, ma non sapevo che farci. Mi sentivo coi nervi a fior di pelle e volevo evitare occasioni di conflitto. Meglio trattenere Otto con forti strattoni che litigare.

Elena Ferrante (2002), I giorni dell'abbandono, Edizioni E/O, Roma, 55-56.

She drove over the bumpy dirt roads lined by tall grasses and thought how interesting it was, that villagers could tell you something like Umunnachi summons you, as though Umunnachi were a person rather than a town. It was raining. The roads were marshy. She glanced at the looming three storeys of her parents’ country home as she drove past it; they would be in Cameroon by now, or perhaps already in London or in Paris, reading the newspapers to learn what was happening back home. She parked in front of her grandfather’s house, near the thatch fence. Her tyres skidded a little in the clumpy soil.

Viaggiò su strade di terra battuta tutte buche e salti, fiancheggiate dall’erba alta, e si ritrovò a pensare al fatto che dal villaggi potesse arrivare qualcuno a dire, Umunnachi ti condanna, come se Umunnachi fosse una persona e non una località. Pioveva. Le strade erano paludi. Passando, lanciò un’occhiata al profilo lontano della villa a tre piani dei suoi in aperta campagna: loro dovevano essere in Camerun ormai, se non addirittura già a Londra o a Parigi, a leggere i giornali per scoprire che succedeva frattanto in patria. Parcheggiò davanti casa del nonno, vicino alla siepe di canne. Le ruote slittarono un po’ sul terreno fangoso. 

Chimamanda Ngozi Adichie (2007 [2006]), Half of A Yellow Sun, NY, Anchor Books, 204. Trad. it. di Susanna Basso (2008), Metà di un sole giallo, Torino, Einaudi, 164.

We stayed on the ground and prayed until the sounds and the light faded into the distance. Now we were afraid to turn on the flashlight to look at the compass, so we used the stars to guide us as we walked and crawled through the desert. After we crossed the fifth barbed-wire fence, I thought our ordeal might be over soon. But then some clouds covered the stars, and we lost our bearings. […] As the hours went on, it got colder and colder, and I started doubting that any of us would make it. I thought about dying here in the desert. Would anyone find my bones or mark my grave? Or would I be lost and forgotten, as if I had never existed? To realize I was completely alone in this world was the scariest thing I’ve felt in my life, and the saddest.

Rimanemmo per terra e pregammo fino a che i suoni e le luci non si affievolirono. Avendo timore di accendere la torcia per dare un’occhiata alla bussola, usammo le stelle per guidarci mentre camminavamo e gattonavamo per il deserto. Dopo aver attraversato la quinta frontiera di filo spinato pensai che la nostra odissea sarebbe presto giunta al termine. Ma delle nuvole oscurarono le stelle facendoci perdere l’orientamento. […] Col passare delle ore si fece sempre più freddo, e cominciai a dubitare che ce la potessimo fare. Pensai alla morte nel deserto. Avrebbe qualcuno trovato le mie ossa, avrebbe qualcuno segnato la mia tomba? Oppure, finirei io per essere dimenticata o persa per sempre, come se non fossi mai esistita? La realizzazione di essere completamente soli in questo mondo fu la cosa più paurosa, e triste, che avessi mai provato.

Park Yeonmi (2015), In Order to Live, London, Penguin Books, 196, tr. it. inedita di Clara Pastore.