Fiero leggero transito senza sgomento!
Veramente come nel sogno avvenne
o come nel vento della poesia.
Il mio cuore ascoltavo, sommesso,
cuore sospeso alla sorte, vivo e amante,
ma stranamente da ogni desio sollevato…
Tu m’attendevi a terra quel giorno,
in ansia attendevi tra il folto di Piccadilly.
La navicella i cieli fendeva, me li librava
nel vuoto immenso, e strada non c’era.
In grandi massi giù il mondo spostarsi vedevo,
città, boschi, dune, e mare e mare.
Aspro il motore cantava, intero al periglio.

Parigi-Londra 8 settembre 1920

Sibilla Aleramo, Nei cieli (2004 [1929]), in Ead., Tutte le poesie, a cura di Silvio Raffo, Milano, Mondadori, 181-182.

Il mondo sottostante era antico e ben si accordava con il sole agonizzante. Gli oceani, che coprivano un quarto della superficie, si rivelarono, al controllo dell’ecometro, non più profondi di trecento metri. I continenti non avevano montagne ma erano piuttosto un susseguirsi di rilievi smussati dalla lunghissima azione degli agenti atmosferici, e si appiattivano in altipiani brulli o coperti da una bassa vegetazione grigiastra.
L’altopiano si rompeva in una serie di crepacci, aperti dalla siccità da tempo immemorabile. Escrescenze rocciose erano disseminate per la pianura, ciuffi d’erba stenta e strinata macchiavano di bianchiccio la distesa bruna. Il paesaggio rimase squallido, poi si popolò di alberi contorti, scuri, abbarbicati alle rocce con enormi radici nude. Poi il suolo di ammorbidì in un coltre di humus, fiorì d’erba grigia, meravigliosa allo sguardo.

Roberta Rambelli (1959), I creatori di mostri, Milano, Ponzoni, 167.

Fra centinaia, forse migliaia d’anni, la superficie di Vert sarà risanata, i ricchi elementi sotterranei sciolti dalle piogge si uniranno in catene e creeranno corpuscoli, spori, licheni, spunteranno fili vegetali. Lentamente il brulichio della vita avrà il sopravvento, rinasceranno tenerissimi fusti, diventeranno cespugli, si infittiranno di fiori, e poi i frutti ingrosseranno, matureranno, prenderanno i più strani colori, di nuovo listex rosso granato, melangis colore dell’arancia terrestre, pomini variegati e chiazzati, remis lilla, mirtix rosa corallo raggruppati sulla cima dello stelo, attorno alla piccola sfera gialla come petali di una corolla attorno al calice.
Ma nessuno li gusterà, nessuno li guarderà.
Ogni stelo, cespuglio, frutto ritornerà, forse le lunine non torneranno, inghiottite per sempre da Proxima oppure dal pianeta metallico. Sarebbe ancora possibile per gli uomini atterrare qui e illudersi di poter vivere, ma poi, dopo un ciclo di cui non sa immaginare la lunghezza, ricomparirà il nemico di Vert, il pianeta di metallo. E nel suo giro cieco spingerà Vert a carbonizzarsi e screpolarsi contro le fiamme di Proxima.
E quando qui tutto sarà di nuovo devastato e ucciso, si allontanerà sulla sua orbita senza sapere neppure di aver compiuto un massacro.
Questo pianeta abitabile, l’unico abitabile per gli uomini oltre il sistema solare, l’unico che si può raggiungere e sfruttare, l’unico, non c’è altro nello spazio, ma neppure questo è abitabile: una morte ciclica interrompe la sua evoluzione, spezza il concatenarsi delle vicende vegetali e impedisce la formazione di una vita animale.
Questo pianeta, così dolce nella sua primavera e chissà quanto splendido e potente nella sua estate che non ho visto e non vedrò mai; questo pianeta tragico, adesso io l’amo e lo compiango, io uomo, io sospeso in uno spazio deserto come Vert Primo è sospeso in uno spazio deserto, io carico di tutte le mie forze di intelletto e di muscoli e sperduto su questa pianeta come Vert Primo gonfio di tutte le possibilità di vita è sperduto nel cosmo, io che non posso usare le mie forze come Vert non può usare le sue, io solo e distrutto come solo e distrutto è Vert Primo, chiuso in un punto definito del vuoto infinito, atomo io, atomo Vert, e attorno a noi stanno soltanto stelle inabitabili, girano in sistemi immensi, vuoti, orrendi, inutili, come sono inutile e inservibile io, e non posso dare niente, non posso fare niente per aiutare Vert Primo contro la ciclica distruzione, per salvare questo infelice unico pianeta abitabile.

Gilda Musa (1963), L'unico abitabile, in Gastone Schiavotto (a cura di), Esperimenti con l'ignoto: antologia della fantascienza italiana, Vicenza, Editoriale Futuro, 38-40.

Di nuovo sull’orto che perde
le ultime foglie, la pioggia
che scroscia, le nebbia che cresce.

Ancora lassù un universo
che si frantuma, in eterno
odio a se stesso.
            E nel vento
Con tutti i suoi verdi capelli,
sconvolti, Siringa
che piange.

Helle Busacca, Solstizio d'inverno (1994), in Ead., Pene di amor perdute, Ragusa, Cultura Duemila, 30.

Un giorno portai in classe delle cartoline. Vecchie cartoline postali italiane, che avevo trovato nello sgabuzzino sotterraneo della nostra casa, sgabuzzino visitato solo da me, in complicità con il mio animo curioso. Scoprii mille oggetti ammuffiti, cose dimenticate, raccolte negli ultimi anni da mio nonno e dagli zii. Là trovai quelle cartoline, un certo tipo di cartoline.
Avevo capito che erano straniere perché non c’era mai un partigiano sconosciuto sul piedistallo, e perché erano molto vecchie; i bordi erano mangiucchiati dal tempo, si erano ingialliti e odoravano di fungo a causa dell’umidità. Però il cielo, il cielo in queste cartoline era blu beato, blu mistero, blu perfetto, le nuvole bianchissime come cotone in fiore, la casa sotto brillava di una luce senza ansia. Tutto era spalmato come uno strato di formaggio dolce su una torta dorata. Ma la cosa che mi gonfiava il cuore, che mi faceva sognare, che mostravo alle miei amiche esclamando “Esistono, ma sì che esistono, ve lo dico!” erano dei piccoli esseri-bambini con le guance rosa e paffute, i capelli fatti di riccioli d’oro, nudi, con delle ali bianche dietro le spalle, che sparsi nello spazio volavano in cielo fino agli angoli dentellati della carta.

Ornela Vorpsi, Il paese dove non si muore mai (2005), Torino, Einaudi, 21.

Non ingombrano i morti: son fatti d’aria
i loro spazi brevi
e i sussurri sono aliti di vento
tra foglia e foglia.
Scorrono silenziosi scivolando
tra lo stipite e i ferri del balcone.
Trovano poi riparo
dietro i rami del glicine
folto di foglie e nuove di corimbi.
Schivano il filo lieve della luna
per annidarsi rapidi
nel fondo oscuro delle cose perse,
i fantasmi che arrivano leggeri
per poi posarsi piano
tra la coscienza e il cuore.

Giusi Verbaro (2011), Non ingombrano i morti: son fatti d’aria, in Ead., La casa sulla scogliera. Poesie 1997-2010, Catanzaro, Stamperia d’arte L’Alternativa, 123.