Al tuo monte
che il vento esilia
dietro siepi
di gemme chiuse
risali in sogno:
vinci a strappi il tuo peso tra le pietre.

E nasci
vena bianca nell’attimo d’azzurro,
nudo canto proteso
oltre le nubi
mute.

Ma cada un raggio – ed è risveglio:
in terra
muore a singulti la tua vita effimera.

Acqua di stagno
ti spaventa – ora – la voce
ridestata del vento,
lento ti beve
il sole
tra le canne sconvolte.

3 maggio 1935

Antonia Pozzi, La sorgente, in Ead., Poesia che mi guardi (2010) , Luca Sossella Editore, Roma, 230.

La casa de adobes se levanta cerca del río […]. Las gruesas paredes, el techo de paja, mantienen un grato frescor aún en los más tórridos días. Ursula, la vieja mujer india, ha regado el piso de tierra, ha esparcido por el suelo ramitas de paraíso. Afuera, el sol abrillanta las hojas cimeras de cocoteros y bananeros. Cuando Blas vuelve la cabeza sobre la almohada, puede aún distinguir, entre los desgarrones del seto, un trozo de algo onduloso y amarillo que resbala a lo lejos: es el río, que viene crecido. De cuando en cuando, la isla náufraga de un camalote pasa boyando. Con él navega el misterio de tierra adentro, atado a veces con el nudo escamoso de una víbora [...].
Derribado en la cama, le resbalan a Blas ojos adentro las montañas sequizas y descoloridas, los páramos grises, y también los trigales interminables o los viñedos negreando su carga borracha de azúcar. El recuerdo del mar le abre enseguida en el pecho una ancha grieta azulverde y salada. Nunca más lo volverá a ver: de ello está ahora seguro. Nunca más. Hace más de cuarenta años que pisó estas riberas, hace dos que está allí clavado en la yacija, paralela al río, y con cada camalote que pasa boyando manda una saudade al mar lejano. Al mar de su sed, que no sabe ya si es el mar azulsueño mediterráneo o el mar verdefuria, loco de soledad, que sorteó en su remoto viaje de venida.

La casa di mattoni crudi sorge accanto al fiume. […] Le pareti spesse, il tetto di paglia, mantengono una gradevole frescura anche nelle giornate più torride. Ursula, la vecchia indigena, ha innaffiato il pavimento di terra, vi ha sparso rametti di paraíso. Fuori, il sole fa brillare le foglie apicali di cocchi e banani. Quando Blas gira la testa sul cuscino può ancora distinguere, tra gli squarci della siepe, un tratto di qualcosa di sinuoso e giallo che scivola in lontananza: è il fiume, che procede ingrossato. Di tanto in tanto, l’isola naufraga di un giacinto d’acqua passa fluttuando. Con esso naviga il mistero dell’entroterra, talvolta cinto dal nodo squamoso di una vipera [...].
Accasciato sul letto, gli scorrono nel fondo degli occhi le montagne aride e scolorite, le lande grigie, e anche gli sconfinati campi di grano o i vigneti nereggianti del loro carico ebbro di zucchero. Il ricordo del mare gli apre subito nel petto un’ampia crepa verdazzurra e salata. Mai più lo rivedrà: ne è ormai sicuro. Mai più. Sono passati più di quarant’anni da quando mise piede su queste sponde e da due è inchiodato a quel giaciglio, parallelo al fiume, e con ogni giacinto d’acqua che passa galleggiando manda un pensiero nostalgico al mare lontano. Al mare della sua sete, che non sa più se sia il mare celestesogno mediterraneo o il mare verdefuria, pazzo di solitudine, al quale era scampato durante il suo remoto viaggio di arrivo.

Josefina Plá (1963), La mano en la tierra, Asunción, Alcor, 5. Trad. it. di Francesca di Meglio (2013), La mano nella terra, in Josefina Plá, Racconti, Firenze, Le Lettere, 31.  

Un matin un fleuve est devant elle. Il ya a dans la voi de l’eau une disposition encourageante et facile, une marche qui dort. Son père a dit un jour que si on suivait le Tonlé-Sap, on ne se perdait jaimais, que tôt ou tard on retrouverait ce qu’il baigne se rives, que ce lac est un océan d’eau douce, que si les enfants son en vie dans ce pays, c’est grâce aux eaux poissonneuses du Tonlé-Sap. Elle marche. Elle remonte pendant trois jours le fleuve qui s’est présenté devant elle, elle calcule qu’au bout du fleuve elle devrait retrouver le nord, le nord du lac [...].
Au-delà de la bréche de pierre de l'entrée de la carrière, le Stung Pursuat continue à se remplir.
Il est plein à ras bords.
Il déborde d'une eau jaunâtre, les bambous dedans sont pris, tranquillement ils son pris par la mort. Elle regarde les eaux jaunes. Ses yeux deviennent fixes, elle les sent se clouer dans son visage. Le regard vers le bambous noyés on ne sent plus rien, la faim est gagnée a son tour par quelque pussance qui la noie. Abandoner, on trouvera comment, la façon d’abandonner. Regard encore sur les eaux jaunes et le bambous noyés: on dirait que la faim trouve sa nourriture là. Mais elle rêve, la faim, un temps très court, très vite elle revient et écrase. Mais elle rêve, la faim, un temps trés court, très vite elle revient et écrase. La jeune fille est sous la faim trop grande pur elle, elle croit que la vague va être trop forte, elle crie. Elle essaie de ne plus regarder le Stung Pursat […].
C’est la première fois qu’il voit se lever le jour ici. Au loin, des palmes bleues. Le bord du Gange, les lépreux et des chiens emmêlés font l’enceinte première, large, la première de la ville. Les morts de faim sont plus loin, dans le grouillement dense du Nord, ils font la dernière enceinte. La lumière est crépusculaire, elle ne ressemble à aucune autre. Dans une peine infinie, unité par unité, la ville se réveille. Ce qu’on voit avant tout c’est l’enceinte première le long du Gange. Ils sont en rangs ou en cercles, sous les arbres, de loin en loin. Parfois ils disent quelques paroles, Charles Rossett corit le voir de mieux en mieux et que sa vision augmente chaque jour en intensité. Il croit voir maintenant de quoi ils sont faits, d’une matière friable et une lymphe claire circule dans leur corps. Armées d’hommes en son sans plus de forces, hommes de son à cervelles de son, indolores. Charles Rossett repart.
Il prend une avenue perpendiculaire au Gange pur éviter les arroseuses qui arrivent lentamente du fond du boulevard.

Una mattina un fiume è davanti a lei. Nel corso dell’acqua c’è un fluire incoraggiante e facile, un moto sonnacchioso. Un giorno il padre ha detto che se si segue il Tonlé-Sap è impossibile perdersi, che prima o poi si finisce per ritrovare ciò che bagna le sue rive, che quel lago è un oceano di acqua dolce, che se i bambini sono vivi in questo paese, è grazie alle acque pescose del Tonlé-Sap. Lei cammina. Per tre giorni risale il fiume che le si è offerto dinanzi, calcola che in capo al fiume ritroverà il nord, il nord del lago [...].
Oltre la breccia di pietra all’ingresso della cava, lo Stung Pursat continua a riempirsi.
È pieno raso.
Trabocca un’acqua giallastra, i bambù rimangono presi dentro, tranquillamente sono presi dallamorte. Lei guarda le acque gialle. Gli occhi le diventano fissi, se li sente inchiodati nel viso. Con lo sguardo volto ai bambù sommersi non si sente più nulla, la fame è a sua volta vinta da qualche potenza che la sommerge. Abbandonare, bisognerà trovarlo, il modo per abbandonare. Di nuovo lo sguardo sulle acque gialle e sui bambù sommersi: sembrerebbe che la fame trovi lì di che nutrirsi. Ma divaga, la fame, per un tempo brevissimo, e subito ritorna e opprime. La ragazza è sotto la fame troppo grande per lei, pensa che l'ondata sarà troppo forte, grida. Cerca di non guardare più lo Stung Pursat [...].
È la prima volta che vede nascere il giorno qui. In lontananza, palme azzurre. La riva del Gange, i lebbrosi e i cani uniti in un groviglio formano la prima cinta, larga, la prima della città. I morti di fame sono più lontano, nel brulichio denso del nord, formano l’ultima cinta. La luce è crepuscolare, non assomiglia a nessun’altra. In una sofferenza infinita, individuo per individuo, la città si risveglia.
Quello che si vede innanzitutto è la prima cinta lungo il Gange. Sono a file o in cerchi, sotto gli alberi, qua e là. Talvolta dicono qualche parola. Charles Rossett crede di vederli sempre meglio e che la sua visione aumenti ogni giorno di intensità. Crede adesso di vedere di che cosa sono fatti, di una materia friabile, e una linfa chiara circola nei loro corpi. Armate di uomini di crusca senza più forze, uomini di crusca col cervello di crusca, indolori. Charles Rossett se ne va.
Si avvia lungo un viale perpendicolare al Gange per evitare le innaffiatrici che arrivano lentamente dal fondo del viale alberato.

Marguerite Duras (1966), Le vice-consul, Paris, Gallimard, 13-14 e 158. Trad. it. di Angelo Morino (1986), Il viceconsole, Milano, Feltrinelli, 10-11, 161.

Il Naviglio è puzzolente e inodore nel medesimo tempo — nel senso che chi ne ha voglia ne può fare astrazione, come del male che è in noi. Lo guardo passando lungo le ripe ‘ e penso che è facile annegarvicisi dentro. Ma in quest’acqua putrida non te ne viene neanche voglia, non sarebbe una morte bella, e poi tutto il popolo verrebbe a curiosa- re e non capirebbe nulla dei tuoi patetici fini. Lo guardo, lo guardo da anni, come abbacinata da una malia, da un malefizio; quante volte avrei voluto lasciarlo dietro le spalle questo dannato Naviglio con le sue memorie i suoi so- spetti le sue maldicenze. Scorre piano che nessuno se ne avvede eppure ti fa così male al cuore, è un fiume che non si conosce, eppure noi gente della plebe, uno per uno, ne portiamo impresso il marchio, è una cosa astratta eppure è così repentina che addirittura ti danna, e un po’ come la presenza del Faust ti invoglia alla vita e ti fa cadere nel sudiciume. Passo; se me ne vado lo guardo con un ghigno feroce di trionfo; se torno sento che lui ride, piano ma con un ghigno altrettanto feroce; mi ha conquistata da sempre, qui sono nati e morti i miei, qui sono nata e morta io, da qui mi porteranno via un giorno a braccia quando sarà venuta la fine. Ma la fine io la incontro ogni giorno quaggiù, faccia a faccia con il Naviglio.

Alda Merini, Il naviglio (2010 [1999]), ora in Ead., Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Milano, Mondadori, 947.

Viaggiava tra fiumi e paludi, a volte issata su una strana zattera, come un naufrago, sempre in compagnia di portatori indigeni che si alternavano da un villaggio all’altro, scortandola ciascuno per un breve tratto – erano presenze familiari e insieme aliene, strani angeli custodi che vegliavano su di lei. Per qualche giorno ne ricordò i nomini – Combo, Kinda, Pita – poi li dimenticò. Aveva immaginato decine di volte l’Angelo bello e terribile che aveva scoperto nelle pagine di Rilke – invocato e respinto, prossimo e distante, destnato a mettere alla prova la sua coscienza nelle ore più disperate. Lo immaginava come quello che avrebbe voluto essere: una creatura perfetta e autosufficiente, incontaminata e incorruttibile. I suoi angeli furono invece dei silenziosi Sango, tatuati come carte topografiche, sottili come le ombre della sera.
I giorni erano brevissimi, e spesso viaggiavano nell’oscurità, e al crepuscolo. Non sapeva più nemmeno dov’era, perché i luoghi che attraversava non erano segnati e la mappa era in quel punto completamente vuota: un dedalo di fiumi – il verde bacino del Congo. Viaggiava in un’enormità informe, cui mancava ogni disegno, ogni ordine, ogni decisione – in un mondo instabile come lei, che ieri esisteva e oggi non più, tra isolotti mobili che vagavamo nella corrente e stelle fisse al di là degli alberi, in un universo che come lei non sceglieva, ed era tutto e il suo contrario. E quel che la circondava non era più angosciante, né estraneo, ma profondamente familiare.

Melania G. Mazzucco (2002), Lei così amata, Milano, Rizzoli, 8.